La professoressa Beatrice Manetti che è stata la nostra referente all’Università per la prima adozione accademica nella storia del nostro progetto ci ha mandato anche la relazione finale. Non possiamo che ringraziarla ancora una volta e lasciamo a lei la parola!
Non è facile adottare una scrittrice all’università. Però è necessario.
Non è facile perché in un grande ateneo come quello di Torino studenti e studentesse incrociano come proiettili la traiettoria dei docenti in corsi che durano al massimo 72 ore. Mettere insieme un gruppo significa andare a cercarli uno a uno, sondare i bisogni inespressi, intuire le curiosità che i programmi d’esame non appagano, sfidarli a impegnarsi in un progetto “a costo zero” (ossia zero crediti). È necessario perché l’università, per come la concepisco io che insegno letteratura italiana contemporanea, è o dovrebbe essere uno spazio aperto a tutti i venti del presente, soprattutto a quelli ai quali non si sa dare ancora un nome.
Devo alla temerarietà di Francesco Morgando l’avermi proposto questa sfida e alla mia personale temerarietà l’averla accolta. D’impulso, come ci accade spesso, e probabilmente con un bicchiere in mano, abbiamo deciso che anche nel Dipartimento di Studi Umanistici si sarebbe potuto sperimentare per la prima volta l’adesione al progetto del Salone del Libro e provare ad adottare uno scrittore, sia pure in forme diverse rispetto a quelle di un istituto secondario.
L’esperimento non poteva riuscire meglio, anche grazie all’impeccabile supporto organizzativo di Augusta Giovannoli. Il “battage pubblicitario” che ho fatto tra studenti e studentesse vecchie e nuove è andato oltre le mie aspettative e ha coinvolto 56 tra laureandi, triennalisti, studenti di magistrale, laureandi e laureati, che si sono impegnati a leggere non solo l’ultimo libro della scrittrice adottata, ma anche i precedenti, insieme ad altro materiale bibliografico che ho fornito loro. Quanto alla scrittrice, la sua scelta non è stata casuale: Helena Janeczek è per me una delle figure più importanti della letteratura italiana degli ultimi vent’anni (non per niente Bloody cow è entrato nel mio programma di magistrale dello scorso anno): fedele a se stessa e ai propri temi ma coraggiosa nel cambiare stile, generi e strutture da un’opera all’altra, profonda conoscitrice dei meccanismi dell’editoria ma indifferente alle sue leggi di mercato, sensibile tanto alla memoria del Novecento e quanto alla più stretta attualità. E anche, ma questo l’ho scoperto solo grazie a “Adotta uno scrittore”, capace di creare il clima più favorevole a un dialogo autentico.
Così è stato nei tre incontri che ha tenuto a Palazzo Nuovo, dedicati ciascuno a un aspetto centrale della sua scrittura: l’intreccio tra memoria privata e narrazione storica a partire dall’ultimo romanzo, La ragazza con la Leica, in un percorso a ritroso fino alle Rondini di Montecassino e a Lezioni di tenebra; l’ibridazione tra fiction, reportage e inchiesta in Bloody cow; la sua formazione intellettuale tra due lingue e tre culture (italiana, tedesca, ebraico-polacca).
Ospitare scrittrici e scrittori contemporanei è una pratica abituale all’università (con alcuni colleghi e colleghe organizzo da anni incontri con i poeti che hanno esordito negli anni Ottanta), ma adottarne una è un’esperienza diversa. La moltiplicazione degli incontri permette di impostare un dialogo disteso e approfondito, scioglie le timidezze, crea una sorta di familiarità intellettuale e affettiva, per cui alla fine del terzo appuntamento si può proseguire la conversazione anche al di fuori di un’aula universitaria e concludere questo esperimento entusiasmante come era cominciato: di fronte a un bicchiere.
Beatrice Manetti
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