Questa mattina all’interno dell’Aula Magna del Liceo Vincenzo Gioberti di Torino è stata tenuta una conferenza nella quale Joachim Meyerhoff ha presentato il suo libro “Quando tutto tornerà ad essere come non è mai stato”. Secondo romanzo di un progetto autobiografico che ne prevede quattro (il terzo è attualmente in elaborazione), parla della sua infanzia, trascorsa in una casa al centro di un complesso ospedaliero psichiatrico di cui il padre era direttore.
Non sono mancate le risate, in un clima sereno e mai noioso, grazie ai molti aneddoti raccontati dall’autore.
Il primo di essi riguardava il suo modo di scrivere durante i primi anni di scuola. Per lui era infatti frequente sentir parlare suo padre dei vari casi, che erano disposti dai piani inferiori verso quelli superiori in ordine di gravità. Ci si riferiva ad essi aggiungendo alla lettera corrispondente al blocco “sotto”, “medio” oppure “sopra”. Il piccolo Joachim interiorizzò presto il collegamento “sopra-grave” e quindi tendeva a sopraelevare le lettere iniziali di parole che avessero annotazioni di pericolosità o minaccia. Al contrario, associava ad un concetto di minore intensità una lettera scritta più in basso.
Cresciuto in un mondo dove tutto era amplificato – rabbia, paura ma anche euforia e affetto – al punto da fargli sembrare noiosa ogni cosa che fosse al di fuori delle mura dell’ospedale, arrivò persino ad amare il concerto di urla (citando lui stesso) con cui aveva appuntamento ogni notte. Maturò anche delle amicizie fra i pazienti, che ovviamente non erano persone normali, e nemmeno rabbrividì alla scoperta di un cadavere sulla strada che lo conduceva a scuola.
Nel raccontare l’esperienza, la arricchiva sempre di particolari più o meno falsi che cambiavano in base a chi si trovasse di fronte. Secondo Meyerhoff, infatti, si tende a dare un’eccessiva importanza alla realtà oggettiva, nonostante spesso essa sia un pessimo mezzo con cui raccontare la storia di una persona, in particolare attraverso un romanzo. Inoltre, sempre a suo avviso, il confine fra realtà e finzione (non intenzionale) è assai labile. A tal proposito ha raccontato di quando, concentrato nell’inventare un nuovo particolare accattivante del suo ritrovamento, parlò all’interlocutore – un suo fratello in quell’occasione – di un anello che realizzò in seguito essere veramente esistito.
L’autore definisce la sua infanzia più interessante che felice, essendo cresciuto in un ambiente familiare non sereno in cui l’elemento da cui si sentiva più amato era il suo cane, un grosso Landseer. In ogni caso, ancora più interessante è stato l’incontro con lui oggi.
Riccardo Stopazzola, Daniele Guasco, Liceo classico e linguistico Vincenzo Gioberti
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