Di chi è la casa? Di chi l’ha costruita o di chi ci vive? Avevo una scommessa da vincere, quando ho scritto il mio libro su Gerusalemme dedicato alle ragazze e ai ragazzi italiani. Farli entrare nelle case della città, mangiare i gelsi del giardino, far percorrere loro le strade della Città Vecchia. Non era facile, la scommessa. Neanche “un mondo fa”.

Quanto è, cioè, distante Acireale da Gerusalemme? Cosa ne sanno, le ragazze e i ragazzi siciliani della terza media di una città, Gerusalemme, che si è trasformata in una specie di campo d’addestramento per cronisti in zone di crisi? E come strappare questo enorme stereotipo che copre come un ombrello una città complessa, eppure, a suo modo, un posto dove si vive (male), si muore (peggio), si sogna e si desidera un’esistenza migliore?

Il modo me lo aveva suggerito alcuni anni fa, involontariamente, un grande studioso della Gerusalemme del periodo ottomano, Roberto Mazza. Un giorno, durante una conferenza a Venezia, in una giornata tersa, assolata, di fronte al Canal Grande, aveva espresso il suo sogno. “E se raccontassimo la storia sociale delle case?”

La storia sociale delle case… Trattare le case, gli edifici come se fossero persone. Quando erano nate, chi le aveva costruite. E soprattutto: chi ci aveva vissuto, in quelle stanze? Cosa c’era nei loro frigoriferi?

Così ci ho provato, a immaginare la casa in cui il nonno di Samira, palestinese, aveva vissuto la sua bella infanzia. La casa, Beit Dajani, da cui era stato cacciato assieme alla sua famiglia nel 1948. La nakba per i palestinesi. La creazione dello Stato, per gli israeliani. La casa in cui Sarah, israeliana, figlia di profughi arrivati dal Marocco, era nata e aveva vissuto ogni giorno della sua vita. Di chi è quella casa? A chi appartiene Beit Dajani, una casa che ha anche un nome?

Beit Dajani potrebbe essere ovunque. Anche sulla luna. Ad Acireale di sicuro. Quando ho chiesto ai 24 della 3E dell’Istituto comprensivo Galileo Galilei di raccontarmi la storia sociale della loro casa, tante mani si sono alzate. Anche solo per dire che di quella casa dove abitavano non sapevano niente, ma di quella dei loro nonni sì.  I racconti si sono accavallati, con la promessa di farne un ‘corpus’, di impegnarsi a fare i ‘compiti a casa’ e di metterli tutti assieme al prossimo incontro.

Il prossimo incontro. Già. Era “un mondo fa”. Di incontri alla vecchia maniera, di quelli in cui ci si vede senza mascherina e si sta vicini ne abbiamo fatto uno solo. Di febbraio, e c’era il caldo tipico di certe giornate invernali in Sicilia. Ci eravamo promessi di rivederci e assieme di commentare la storia di Sarah e Samira e di quella casa che chissà di chi era. Di chi è.

Poi è arrivato il tempo sospeso della pandemia, ma per fortuna i libri sono arrivati prima – prima della chiusura, prima del rintanarsi, appunto, nelle case che definiamo nostre e che pensiamo di possedere.

E allora, con le ragazze e i ragazzi, abbiamo sperimentato a maggio il nuovo – e ora consolidato – modo di incontrarci e di parlare, di fare domande e ridere, di guardarci. Per fortuna li avevo visti almeno una volta come classe, dentro i loro luoghi. E loro avevano visto me.

Malinconici, non c’è dubbio. Erano malinconici tanto quanto, a febbraio, avevano addosso una timida euforia al pensiero di andare a maggio a Torino, all’edizione 2020 del Salone del Libro. La prima volta, per loro. La prima volta, per la loro scuola e per Acireale. E io che sugli stereotipi mi spacco la testa da vent’anni, mi ero detta a febbraio di quanto non facciamo, di quanto non li ascoltiamo. Loro, che a 13 e 14 anni pensavano al Salone del Libro di Torino come un traguardo e un sogno. Noi, che a loro pensiamo spesso come avatar senza sogni e nella migliore delle ipotesi come un pianeta incognito. Mi avevano ricordato, “un mondo fa”, le ragazze e i ragazzi che riempivano all’inverosimile gli spazi della grande fiera alla periferia di Algeri, per l’annuale Salone del libro.

Niente più euforia, per il nostro incontro virtuale. Al posto dell’euforia, una serietà e un impegno incredibili, al pensiero che fossero riusciti a dispiegarlo in una situazione unica nella storia degli ultimi cento anni. Non solo avevano letto il mio libro, la storia per niente confortante di Sarah e Samira, di due ragazze divise dalla Storia, del loro dialogo che non è un’amicizia, del loro rapporto che non è normalizzante. C’era, nelle ragazze e nei ragazzi, una richiesta profonda di realtà, in un mondo già cambiato. La richiesta di una grammatica delle relazioni, la vecchia e la rinnovata.

Sento, nel profondo del mio cuore, che ce la insegneranno loro, la nuova grammatica. Grazie.

Paola Caridi

Leggi anche il resoconto degli studenti e delle studentesse dell’Istituto Comprensivo Galileo Galilei di Acireale che hanno adottato Paola Caridi

Potete trovare l’articolo anche sul blog Invisible Arabs di Paola Caridi dove potete continuare a seguirla su questi temi!